Per un professionista del recruiting niente è diventato più familiare, negli ultimi tempi, quanto il termine “strategico”.
L’avrete certamente notato anche voi. E questo perché, mentre l’intero settore pativa
gli effetti di una stagnazione di cui non si capiva bene l’origine né il punto d’arrivo, tutt’intorno gli strumenti e le nuove prassi offerte dall’innovazione venivano guardati con diffidenza. In un circolo vizioso che finiva, com’è ovvio, per alimentare l’impasse; con- dannando la ricerca e selezione del personale a un ritardo cronico rispetto a qualsiasi altro ambito aziendale.
Chiaro che, ad avanzare con un incedere del genere, cumulando ritardo a ritardo, si è finiti per perdere di vista anche le differenze più elementari. Così ciò che prima era solo necessario è diventato di punto in bianco indispensabile; ciò che era giusto, insostituibile; e ciò che era importante si è trasformato, di colpo, appunto, in strategico.
Ma cosa è davvero “strategico”, oggi, nel recruiting? Uno dei compiti che ci siamo affidati in Monster alla fine dello scorso anno, il nostro venticinquesimo di presenza sul mercato, è stato proprio quello di provare a distinguere cosa serva e cosa no, oggi, a una divisione HR per assicurarsi una gestione efficiente dell’attraction e della retention dei talenti. Di sicuro, ci siamo detti, per prima cosa serve una visione d’insieme della funzione. Basta pensare al recruiting come a una funzione secondaria, considerandola di volta in volta utile o trascurabile a seconda dell’esigenza e del momento.
Avere una più grande ambizione sul piano culturale è il primo, vero obiettivo degli specialisti della ricerca e selezione per i prossimi anni. Una più grande ambizione, aggiungiamo, indipendentemente dal contesto aziendale a cui si appartiene. Ché le rivoluzioni cominciano negli scantinati e nei garage, mica nei palazzetti dello sport. Cosa vuol dire? Che chi si occupa di portare a bordo talenti, e lo vuole fare con un minimo di lungimiranza, non può non iniziare a interrogarsi più a fondo sulla maniera attraverso cui favorire e sviluppare comportamenti individuali e collettivi improntati sui tratti principali della cultura dell’impresa a cui si appartiene. In altri termini, occorre rompere la linea di demarcazione tra “dentro” e “fuori”, tra chi fa già parte dell’azienda e chi potrebbe potenzialmente entrarvi. Vale a dire che anche se le competenze da cercare all’esterno o da sviluppare al proprio interno variano col variare dei bisogni, e si ha una percezione chiara di quali siano i comportamenti virtuosi da favorire in questa o quest’altra fase aziendale, deve esserci una traiettoria realista da tracciare e perseguire nell’azione quotidiana della funzione.
Comincia a prendere corpo, insomma, l’idea di un cambio di paradigma netto, un vero e proprio “Recruiting Reinventato” (lo abbiamo chiamato così in Monster), che viaggia su due binari paralleli: uno teorico, di principio; e l’altro pratico.
La teoria, lo abbiamo detto, passa per una presa di coscienza del peso specifico che assumerà il recruiting - inteso come strategia a lungo termine per attrarre e trattenere i talenti migliori - all’interno della funzione HR nei prossimi anni. Un concetto che si sublima nel ripensare il ruolo di questa funzione aziendale liberandola, una volta per tutte, dalla concezione di “framework” tra organizzazione e mondo del lavoro. Un errore di valutazione che è all’origine di molte storture.
Per la pratica, invece, sono tre i gesti virtuosi che abbiamo individuato: assumere personalità e non più semplici profili; considerare l’assunzione e l’onboarding un unico - e più lungo - processo di inserimento della risorsa in azienda; aprire la valutazione del candidato all’intelligenza artificiale e al gaming per creare subito un legame valoriale tra azienda e risorsa sul quale, in un secondo momento, trasferire nuovo sapere. Perché come in ogni processo di evoluzione, anche quello che porterà a un nuovo modello di recruiting poggia su elementi diversi. Alcuni molto importanti, altri, invece, semplicemente strategici.
Comments